348 si, 274 no e 36 astenuti: con un voto nell’Aula di Strasburgo, il 26 marzo 2019 il Parlamento Europeo ha approvato la direttiva di riforma del copyright e sul diritto (digitale) d’autore. L’approvazione di questo documento è stata oggetto di polemiche e battaglie online combattute a colpi di post, meme e oscuramento di pagine web, vedi Wikipedia.
La materia è d’altronde complessa. Il diritto d’autore sul web è una tema quanto mai attuale e, prima di questa riforma, la regolamentazione UE del copyright era ferma ad un testo del 2001: un documento che faceva riferimento ai primi siti di e-commerce (uno dei riferimenti del testo di 18 anni fa era Ebay) e ad un Web diversissimo da quello di oggi. «La nuova direttiva – ha spiegato in Aula la commissaria Ue al digitale Mariya Gabriel – permetterà di adeguare il diritto d’autore al Ventunesimo secolo», andando «a vantaggio di autori, interpreti, giornalisti, editori, produttori di film e musicali».
Cosa cambia
Secondo i promotori del testo, le nuove norme Ue sul copyright, che includono salvaguardie alla libertà di espressione, consentiranno infatti a creatori ed editori di notizie di negoziare con i giganti del web il pagamento di compensi per l’utilizzo di contenuti coperti da diritti d’autore. I detrattori della riforma sostengono invece che il testi crei “un nuovo diritto a favore degli editori” ed apra ad una “notevole incertezza giuridica” che danneggerà i creatori di contenuti, le piattaforme Open Source e la libertà di espressione degli utenti.
Senza voler entrare nel merito delle opinioni delle due fazioni contrapposte, può essere utile analizzare i punti fondamentali della normativa approvata dal Parlamento Europeo. Conoscere cosa prevede il testo è infatti l’unico per capire in concreto cosa aspettarsi nei mesi a venire e se, davvero, il nostro modo di usare internet subirà cambiamenti.
“Snippet” giornalistici
Uno dei punti più complicati, normati dal famigerato art. 11, era quello degli “snippet”, cioè le anteprime delle notizie degli editori composte e rilanciate dai colossi del web sui propri aggregatori o sui social network. Vedi alla voce Google News – che nei mesi scorsi aveva enormemente premuto sul tema, paventando anche il rischio di una sua chiusura e dunque di un’importante perdita del traffico dati – o Facebook. Bene, secondo l’accordo si potranno continuare a condividere ma senza abusarne. Si dovrà cioè essere più sintetici. Molto più sintetici. Rimane da capire se saranno ugualmente efficaci e che cosa significhi davvero “molto brevi”: se infatti si andrà oltre qualche parola, ai player digitali occorrerà una licenza contrattata con i singoli editori e della durata biennale.
Meme e parodie
Sarà ancora possibile, accade per esempio sui social, caricare opere e lavori protetti dal diritto d’autore ma pubblicati con scopi di citazione, critica, recensione, caricatura, parodia o “pastiche”, cioè imitazione. Gli onnipresenti meme e le gif, per esempio, continueranno a rimanere disponibili e condivisibili senza dover temere la tagliola dei filtri. Filtri di controllo che in effetti la direttiva non prevede formalmente, neanche all’art. 13. Tuttavia i più duri contestatori del provvedimento pensano che alle grandi e piccole piattaforme non rimarrebbe soluzione, per controllare preventivamente i contenuti caricati dai loro utenti ed evitare responsabilità legali dirette, che procedere a verifiche automatizzate un po’ sulla falsa riga del sistema Content ID di YouTube. Il testo prevede anche che se un contenuto di questo tipo viene illecitamente eliminato, i cittadini devono poter fare appello attraverso un non meglio precisato meccanismo di verifica.
Il controllo alla base
Le startup con un fatturato inferiore ai 10 milioni di euro saranno esentate dall’applicazione dell’art. 13, quindi dal controllo preventivo dei contenuti di cui si parlava in precedenza. Proprio per consentire loro di crescere e non finire schiacciate da costi e vincoli che ne stornerebbero energie e risorse su un meccanismo certo non semplice da sviluppare in casa come se tutti fossero Google. Tuttavia i vincoli sembrerebbero molto limitati: oltre al fatturato, le piattaforme sollevate non devono avere più di 5 milioni di utenti mensili ed essere sul mercato da meno di tre anni. E in ogni caso dovrebbero dimostrare di essersi impegnate per aver ottenuto le licenze d’uso da parte dei legittimi detentori dei diritti.
Wikipedia & co.
L’enciclopedia libera e condivisa è stata in questi mesi l’avanguardia dell’opposizione alla direttiva, oscurando anche le sue pagine per protesta alla vigilia del voto. In realtà, le eccezioni previste dalla riforma la escludono in modo esplicito dall’applicazione delle nuove norme. Lo stesso accade con le piattaforme di software open source come GitHub, i servizi cloud o l’ecommerce. Le eccezioni riguardano anche il text e data mining, le attività di insegnamento online anche transfrontaliere e la conservazione e diffusione online del patrimonio culturale.